Lo smart working, una volta terminata la gestione emergenziale, resterà parte della nostra quotidianità oppure si tornerà tutti in ufficio, ricominciando il solito tran-tran da pendolari e lavorando seguendo il classico orario? La risposta non è così scontata come sembra: per molti di noi lo smart working è stata un’esperienza positiva, che ha permesso di recuperare il tempo perso in treno o nel traffico, ma per altri è stato un vero disastro, fatto di orari infiniti, videochiamate perenni e sempre meno spazio per la vita privata. Nella riflessione sul futuro dello smart working, allora, diventa fondamentale ricordare quale dovrebbe essere il vero lavoro agile e non fossilizzarci sull’esperienza che ne abbiamo avuto in questi mesi.
Evoluzione dello smart working dopo la pandemia: lavoreremo tutti da casa?
Durante l’ultimo anno il mondo del lavoro ha subito un’accelerazione: lo smart working si è imposto nella quotidianità di tutti i lavoratori del settore dei servizi, diventando una possibilità concreta di un nuovo stile di vita.
Parliamo di accelerazione perché questa trasformazione si vedeva in alcune aziende già negli anni scorsi, specialmente in posti di lavoro dove l’attenzione per le risorse umane è reale e non si limita al bieco controllo di quante ore i dipendenti passano alla scrivania.
Già l’autunno scorso avevamo iniziato a riflettere su questo aspetto, evidenziando come lo smart working porta con sé un cambio di prospettiva, passando dall’orario al progetto come base di valutazione: oltre l’Osservatorio Smart Working che avevamo citato, anche molte aziende strutturate rivendicano questo cambio di paradigma. Un esempio ce lo offre Maurizia Cecchet, capo delle risorse umane del settore Asset & Wealth Management di Generali, che in un’intervista per Panorama racconta la sua visione del futuro dello smart working: «si tornerà in ufficio per quello che non funziona da remoto, per gli scambi importanti, le interazioni significative, per gli eventi. Per aggregarsi, ritrovarsi, certo non per leggere le mail o partecipare a una call».
Come sembra sempre più chiaro per molti, infatti dice che «non sono più cruciali il presidio fisico della scrivania, il tempo trascorso al computer, piuttosto la capacità di portare a termine compiti sfidanti però raggiungibili» e ancora parla di «un'intensa formazione dedicata i nostri manager, che favorisca il consolidamento di tale paradigma».
L’aspetto della misurazione dei risultati, di responsabilità dei manager, è infatti il cuore del cambiamento che si impone con lo smart working: se non importa più il tempo speso al pc, ma la qualità del lavoro svolto, deve esserci dall’altra parte qualcuno in grado di valutare, di spronare e incentivare i dipendenti, favorendo il passaggio verso questa nuova mentalità.
Come si stava evolvendo lo smart working dopo la prima fase emergenziale del 2020?
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Smart working e sviluppo sostenibile, non solo per il pianeta ma anche per la nostra qualità di vita
Questo vuol dire che lavoreremo tutti da casa? Non per forza: le aziende più diffuse sul territorio potranno provvedere a piccoli uffici cittadini per riunire i dipendenti che vivono in una certa città, che così non avrebbero bisogno di recarsi in una sede centrale tutti i giorni, evitando il pendolarismo; pensiamo ad esempio alle metropoli di Milano, Roma, Napoli che attirano ogni giorno un altissimo numero di pendolari che si muovono da centri più piccoli delle province attigue. Lo stesso discorso si può fare in un coworking, senza bisogno di una struttura aziendale fisica.
Questo farebbe bene non solo al pianeta, limitando spostamenti e quindi emissioni, ma anche alla nostra qualità di vita: qual è il vantaggio nel fare 50km al giorno per aprire un pc su una scrivania nel centro di Milano rispetto a farlo da casa nostra? Quindi sì alle riunioni di persona, sì a giorni ben definiti di presenza per favorire le interazioni tra colleghi, sì anche a periodi in cui si segue un progetto dal vivo, ma solo per reali esigenze.
Se il tipo di lavoro svolto lo permette, poi, perché non lavorare altrove? Non parliamo solo di nomadi digitali, ma di chi è tornato nelle proprie terre – molto spesso nel Sud Italia – durante la pandemia, approfittando della possibilità offerta dallo smart working. Il fenomeno del South Working, così definito dai media, ha visto tantissime persone che erano emigrate dal sud in cerca di lavoro tornare a casa per svolgere quello stesso lavoro da remoto. Come raccontato in questo articolo dell’Huffington Post, il South Working potrebbe essere anche vettore del riscatto dei paesi del centro-sud che si sono progressivamente spopolati per mancanza di lavoro; lo stesso vale anche per i borghi di montagna del Nord Italia e per tutti quei luoghi che si abbandonano per cercare fortuna in città sempre più congestionate.
Certamente questa trasformazione non sarà a costo zero e l’accelerazione subita durante la pandemia ha infierito su tutto l’indotto delle aziende che occupavano interi quartieri, ma la vera sfida non sarà ostacolare questo cambiamento, ma facilitare una transizione giusta, valida per dipendenti, aziende e tutto il mondo che ruota attorno a loro.
Lo smart working è una possibilità in più anche per salvaguardare il nostro pianeta